giovedì 11 ottobre 2012

E adesso?

Cosa dire a questo punto?
Indubbiamente l'Ulysses è lo specchio della modernità, con i personaggi ridotti ad una serie di percezioni e pensieri disordinati, senza alcun principio unificante e senza nessun ideale che non sia consumare un buon pranzo o portarsi a letto qualche amante.
C'è già (quasi) tutto il novecento, il piccolo borghese e uomo senza qualità di Moravia (Bloom), l'intellettuale troppo preso dal proprio ombelico per apprezzare la realtà (Stephen), quella retorica pseudo-femminista della donna sempre più intelligente e determinata dell'uomo (M0lly), l'ossessione per il sesso che attanaglia un po' tutti.
Eppure, o forse proprio per questo, l'Ulysses è un romanzo brutto: alzi la mano chi prova piacere nel leggerlo, chi divora le pagine preso dalla vicenda o da empatia nei confronti dei personaggi. Diciamo che lo si legge per capire un periodo storico, una corrente letteraria, per rivivere la Dublino di inizio secolo, per scommessa, per dimostrare che se ne è capaci. Come recita la quarta di copertina dell'edizione Oscar Mondadori "... non il romanzo più bello del secolo, ma il più decisivo...", giudizio centrato alla perfezione.
Ferma restando la perizia tecnica di Joyce nel cambiare stile, nei giochi di parole e in tutto il resto, questa colossale parodia non fa altro che chiudere bottega: parodia della religione significa che non c'è più religione, parodia degli stili letterari significa che non c'è più letteratura, parodia degli ideali significa che non esistonno più ideali, e via di questo passo.
Resta una domanda: è questa la realtà delle cose, o il mondo dell'Ulysses non è che la proiezione delle nevrosi di Joyce? Propendo per la seconda conclusione.
Adesso, se ne avete voglia, potete leggervelo, buona passeggiata.

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